E’
quello che può capitare in una sera d'estate a Taormina quando gli astri depongono
idealmente i loro baci sulla costa e le stelle più terrene
(quelle hollywoodiane) attraversano incantati i viottoli della Perla dello Jonio, soffermandosi sui
riflessi che quei baci proiettano sul mare.
E’
uno di quegli incontri che può avvenire solo al Taormina Film Fest, quel
festival ritrovato, miracolato e finalmente restituito al pubblico dopo beghe
giudiziarie infinite e la pallida edizione “in house” dello scorso anno. In
questo primo anno di fondamentale “ripartenza” concettuale e strutturale della kermesse (è la prima
edizione curata interamente da Videobank sotto l’alta egida professionale
dei direttori artistici Silvia Bizio e Gianvito Casadonte) sono tornati i film
e il concorso, le masterclass (più rilassate rispetto al passato) e
la competenza e in ultimo, naturalmente, le star straniere. Vecchie conoscenze che fanno ritorno
a teatro (un ironico e sempre piacevolissimo Rupert Everett), maestri indiscussi al centro di memorabili incontri (Terry Gilliam), ospiti-amici che si
comportano come cerimonieri di casa (Matthew Modine, splendido su qualsiasi linea, da quella professionale a quella umana) e infine qualche personalità che ancora non era stata ospitata come, appunto, il mitico Richard Dreyfuss, grande protagonista di capolavori
spielberghiani (“Incontri ravvicinati del terzo tipo”, “Lo squalo”,
“Always-per sempre”) oltre che di un capitolo fondamentale della new wave
hollywoodiana degli anni ‘70-’80 (titoli come “American Graffiti”e “Goodbye amore mio!” per
quale l’attore ha ricevuto il suo unico premio Oscar di carriera).
Proprio
a lui è dedicato l’omaggio illustrato interamente ispirato a “Incontri
ravvicinati del terzo tipo”, film segnante della mia vita cinematografica e
frammento indispensabile di un personalissimo discorso amoroso con l’arte e la vita (e con l'arte che si intreccia alla vita). Già perché se “E.T.” a 10 anni mi faceva percepire, tra le pieghe
di un incontro alieno, tutta la bellezza e l’abnegazione di cui l’amore e
l’amicizia erano capaci, con “Incontri ravvicinati del terzo tipo” ho avuto il
privilegio - come del resto milioni di spettatori al mondo da 40 anni a questa
parte- di vivere l’attesa di un convegno con l’ignoto, fissando
una volta fatta di stelle che viravano in luci messianiche e in ultimo di
toccare, attraverso il riverbero di quelle luci extraterrestri, una porzione infinitesima
di assoluto. Che si tratti di alieni, di
umani rapiti e poi restituiti al loro tempo o della proiezione di un affetto per i cari che
non ci sono più, quel film riesce, come un miracolo, a stendere una mano
sull’anima di tutti, rendendo quell’abbraccio interstellare simile a un’epifania religiosa sospesa tra il sensoriale-visivo e il musicale-intimista. E riesce a rendere tutto questo non soltanto per il tramite di una sensibilità infantile (quella del regista), ma anche e soprattutto grazie a allo sguardo immacolato e "bambino” del suo fantastico protagonista Richard Dreyfuss. Proprio
a quegli occhi faccio cenno nella dedica scritta sul retro del disegno e mai
avrei immaginato che quelle parole avrebbero “sollecitato”, dopo l’approccio
formale iniziale (gestito da una cordialissima collega giornalista che l’aveva
appena intervistato), anche un diverso tipo di incontro.
“A
Richard Dreyfuss, per aver guardato il cielo e gli alieni attraverso gli occhi
dei bambini di tutto il mondo”. Queste le parole che ho scelto e attraverso le
quali ho cercato di sublimare le sensazioni che il film e l'interpretazione del suo protagonista ancora mi procurano dopo infinite visioni.
Lui
le legge e le rilegge con lo stesso sguardo blu-cielo del 1977. Sorride, mi
ringrazia con entusiasmo e poi si abbassa, con mio stupore, cercando lo spazio
per una confidenza privata, distante dal trambusto che ci circonda in quella terrazza
d’albergo. Le parole che gli ho scritto -mi dice- gli hanno rievocato il
ricordo dei momenti in cui cercava, ben quarant’anni prima, di ottenere la parte
proprio per quel film. Voleva assolutamente quel ruolo e pur di convincere un giovane Spielberg a sceglierlo per interpretare Roy Neary - papà di famiglia amante
del “Pinocchio” disneyano, figura innocente e tormentata travolta da follia e visioni aliene - non esitò a diffondere per gioco voci simpaticamente diffamatorie sui colleghi
più affermati e già in lizza per quella parte. Così Gene Hackman e Al Pacino, racconta,
venivano liquidati da lui nei corridoi come "poco bravi" o addirittura "matti" e neppure Jack Nicholson veniva risparmiato ( “Dissi a Spielberg che non aveva senso dell’umorismo”). Infine arrivò la
frase che convinse definitivamente il futuro regista di "Indiana Jones" a sceglierlo: “You need a child!”. Me la riporta con
espressione seria fissandomi negli occhi e indicando contestualmente la mia dedica. Dreyfuss sapeva, e Spielberg
intimamente anche, che erano necessari gli occhi di un bambino per guardare
dentro quelli di un alieno, per restituire cioè quel senso di stupefazione tutto infantile capace di
muovere l’adulto lontano dalla sua stessa famiglia e il personaggio di Roy verso quella folle corsa fino al Wyoming e alla Devil's Tower (la
montagna-simbolo dell’incontro). Inconsapevolmente devo aver rievocato quella
sensazione attraverso l’immagine (in cui gli occhi sono ancora quelli di allora), ma soprattutto attraverso lo scritto, e di questo l'incredibile Richard mi ringrazia
vivamente. Ribatto emozionato (in uno
stentatissimo inglese anche se miracolosamente ormai ci capiamo) che il dono me l’ha fatto lui in
quel preciso momento, condividendo inaspettatamente quel ricordo in uno spazio così caotico.
Inutile dire che, personalmente, versavo in uno stato a metà tra l’incredulo e
l’apnea da ascolto; raramente era accaduto che un attore omaggiato con un disegno mi
dedicasse tanto tempo e in modo così confidenziale e sentito. “Ma che vi siete detti?” azzarda
un collega quando finisco con lui. In effetti è più facile scriverlo qui che
esprimerlo a voce. Dopo la foto Dreyfuss continua a guardare disegno e dedica, esibisce di sua iniziativa la mia stampa ai fotografi e quindi mi riavvicina ancora. “Questo
dono è soltanto tuo, non di nessun altro!” mi rammenta riferendosi al disegno. E infine “Non
bisogna avere paura del cielo” indicandomi
proprio la volta celeste sopra Taormina e il mistero ancora racchiuso al di là dello spazio visibile. Chissà se da lassù i "grigi" benevoli del film stavano veramente fissando tutta la scena, magari intonando le cinque note storiche (di John Williams) che suggellarono quarant'anni fa quella toccante solidarietà fra umani e alieni. Io lo ringrazio
ancora e gli stringo la mano, sentendomi un po’ io quell’alieno, piombato sulla Terra(zza) di Taormina con pochissime speranze d'incontro e poi sorpreso nel trovarvi un’accoglienza così inaspettata.
Idealmente,
attraverso l’unico linguaggio che vorrei sempre usare (quello del disegno), ho
unito il bambino Dreyfuss al me bambino che sogna ancora di contemplare dal vero quell’epifania di
luci, colori e mistero. Concedetemi di incastonare questo po’ di altisonante poesia nel cielo. Perché
stavolta e per qualche minuto in più il cinema è voluto davvero venire da me.
Ed è stato impossibile accoglierlo senza commozione. Grazie Richard!
Testo e disegno di Andrea Lupo
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